C’è uno scritto, piccino e luminoso, che da solo basterebbe a garantire a Simone Weil una presenza eterna nel Pantheon degli uomini: “la persona e il sacro”.
Concepito a Londra poco prima di morire, analizza con uno sguardo totalmente “inattuale” la differenza tra “personale” e “impersonale”.
Se da qualche secolo “lo Spirito del Tempo” lavora per trasformare il “soggetto”, la “persona”, nel punto di riferimento fondamentale per la rappresentazione del mondo,
in Grecia la parola “soggetto” non aveva neanche il nome per poter essere detta, e quando la modernità l’ha messa in commercio, “soggetto” significava sub-gettato, sottoposto; non era ancora quell’esemplare che si pavoneggia sul piedistallo della modernità, convinto di essere il fine della storia (“si ha ragione quando si dice che l’antichità non aveva la nozione del rispetto dovuto alla persona. Pensava con troppa chiarezza per una concezione così confusa” pag. 44; tutte le citazioni della Weil provengono dal libro Morale e Letteratura, ETS editrice, Pisa, 1990).
Prima che il sub-getto diventasse il dominus del mondo grazie alla presunta parentela col Dio Onnipotente, il “governo” del mondo apparteneva al destino, al Fato, alle Erinni e solo dopo avevano parola gli dei.
Il reale allora potevano chiamarlo: cielo, bene, spirito, divino, e in tanti altri modi: in ogni caso era qualcosa che non era nella disponibilità dell’uomo; e neanche degli dei.
E la certezza della realtà di un’altra realtà riusciva a temperare la pressione dei “valori sociali”.
Adesso invece l’uomo sembra non conoscere più nessuna realtà “trascendente” l’uomo; in ogni caso non la vive più. E allora le grinfie del “Grosso Animale” (Platone) tengono sempre più stretto il nostro cuore e la nostra mente.
Ma se non esiste più la realtà trascendente non è un male per il trascendente, è una tragedia per noi.
Simone è stata attraversata da questa “tragedia”; l’ha vissuta con tutta la sua intelligenza e la sua sensibilità. L’ha vissuta dolorosamente, intensamente, sulla sua carne.
Per questo doveva essere “inattuale”. Non poteva adeguarsi alle gerarchie di “valore” che esaltano la “persona”, perché lei sapeva altro. Lo sapeva sia perché lo sperimentava dentro sé, sia perché i Greci glielo confermavano fuori di sé.
E poteva conoscere l’irrilevanza della “persona”, perché aveva fede in qualcosa più grande di sé.
Per questo non si è rassegnata a credere, con la modernità, che la persona è sacra: “Ciò che è sacro, ben lungi dall’essere la persona, è ciò che, in un essere umano, è impersonale. Tutto ciò che è impersonale nell’uomo è sacro, e soltanto quello” (pag. 41).
E l’impersonale, il sacro, resterà per lei sempre e solo il Bene trascendente: “il bene è l’unica fonte del sacro” ( pag. 38 ); qualcosa che trascende sia la persona e ancor di più la società.
Solo perché abbiamo perso il rapporto con l’impersonale, quello che un tempo si chiamava divino, trascendente, sacro, siamo costretti a rassegnarci dentro la realtà visibile come se fosse l’unica realtà.
Da qui nasce la nostra povertà. Quella che ci costringe a “gonfiare” il valore della soggettività, con la speranza di dare un equilibrio al nostro squilibrio.
Ma tutto quello che esalta la persona, non ci porterà mai a casa: “La scienza, l’arte, la letteratura, la filosofia che sono soltanto forme di realizzazione della persona, costituiscono un campo in cui si realizzano successi clamorosi, gloriosi, che fanno vivere dei nomi per migliaia di anni. Ma al di sopra di questo, molto al di sopra, separato da un abisso, ve n’è un altro, in cui stanno le cose di primissimo ordine. Queste sono essenzialmente anonime” ( pag. 42).
E’ questo il campo che occorre indicare agli uomini; qui è necessario spingere lo sguardo per intuire qualcosa della nostra “verità”.
Qui le persone sono veramente tutte uguali; ma qui non siamo più persone, siamo anonimi. Perché prima e al di là del soggetto, della persona, c’è qualcosa che non è riconducibile ai nostri nomi, alle nostre persone, ai nostri “valori”. Qualcosa di “impersonale”, ma estremamente più “vero” della “persona”.
“La perfezione è impersonale… Tutto lo sforzo dei mistici è sempre stato volto a ottenere che non ci fosse più nella loro anima nessuna parte che dicesse io. Ma la parte dell’anima che dice “noi” è ancora infinitamente più pericolosa”. ( pag. 43)
Questo “sforzo” può avvenire solo nella solitudine, quando i “valori” di un gruppo, di una comunità, non agiscono più da “filtro” tra il nostro sguardo e il mondo.
Ogni collettività ha ambizioni, interessi, passioni, proprie, che quasi mai coincidono con la dolorosa esigenza di esplorare la realtà di un uomo solo: “il passaggio nell’impersonale si opera solo tramite un’attenzione di una rara qualità, possibile soltanto nella solitudine. Non solo la solitudine di fatto, ma la solitudine morale. Non si compie mai in colui che pensa se stesso come membro di una collettività, come parte di un “noi” ( pag. 43).
Perché è vero che la collettività dà delle risposte ai nostri bisogni, ma sono risposte vicine ai nostri bisogni “animali”; risposte che chiudono, anziché aprire il nostro sguardo sulla “realtà”. Quella realtà, come ben sapeva Simone, che possiamo sperimentare solo con la “sventura”:
”Solo l’operazione sovrannaturale della grazia è in grado di condurre un’anima attraverso il proprio annientamento fino al luogo dove si coglie quella specie di attenzione che da sola permette di essere attenti alla verità e alla sventura. E’ la stessa per i due oggetti. E’ un’attenzione intensa, pura, senza moventi, gratuita, generosa. E quest’attenzione è amore” (61).
E’ la sventura, infatti, che ci obbliga a leggere con occhi puri la nostra vita. A leggerla così com’è. Altrimenti restiamo sempre prigionieri del Grosso Animale e non possiamo sperimentare l’esaltante tragicità del nostro ex-sistere.
Solo quando la sventura ci apre gli occhi e il cuore, siamo costretti a capire che non è l’io, la persona, che conta, ma l’impersonale; “Ciò che è sacro nella scienza, è la verità. Ciò che è sacro nell’arte, è la bellezza. La verità e la bellezza sono impersonali”(43). Mentre “colui agli occhi del quale conta solo la realizzazione della persona ha perso del tutto il senso del sacro” (44).
E’ vero che qui tutto induce a credere la società come una forma di trascendenza; e in realtà la società trascende la persona, ma la trascende solo nel numero; i “valori” di riferimento restano invece gli stessi: “Non solo la collettività è estranea al sacro, ma inganna dandone una falsa imitazione” (pag.43).
Tra l’io e la società, dice Simone Weil, non c’è separazione: agiscono condizionati dagli stessi “valori”: “La subordinazione della persona alla collettività non è uno scandalo; è un fatto dell’ordine dei fatti meccanici, come quella del grammo al chilogrammo su una bilancia. Di fatto la persona è sempre sottomessa alla collettività, perfino in quella che viene chiamata la sua realizzazione. Per esempio, sono proprio gli artisti e gli scrittori, i più inclini a considerare la loro arte come l’espressione della loro persona, quelli che difatti sono più sottomessi al gusto del pubblico” (pag. 44).
Ma se la persona, l’io, il soggetto, sono una trappola che può impedirci l’accesso al trascendente, molto peggio è il collettivo, il “noi”: “Il personale è contrapposto all’impersonale, ma vi è passaggio tra l’uno e l’altro. Non vi è passaggio tra il collettivo e l’impersonale. Bisogna prima che una collettività si dissolva in persone distinte perché sia possibile entrare nell’impersonale” (pag. 43).
L’impersonale di cui parla la Weil non può essere interpretato come una fuga rispetto ai doveri che tutti abbiamo verso tutti. Simone , infatti, anche se ha camminato molto sulla via che porta al distacco da sé, ma non si è mai separata dagli uomini.
Ma se all’inizio la relazione passava tutta sul piano politico-sociale, col tempo la sua relazione con gli uomini è passata “attraverso la luna”. E’ diventata “trascendente”: “ognuno di quelli che sono penetrati nella sfera dell’impersonale vi incontra una responsabilità verso tutti gli esseri umani. Quella di proteggere in loro, non la persona, ma tutto ciò che la persona racchiude di fragili possibilità di passaggio nell’impersonale” ( pag.45). Perché è nell’impersonale che può “realizzarsi” la persona, non nella collettività. La collettività è, infatti, solo una moltiplicazione del personale, del soggettivo; niente altro: “sarebbe già molto se fra coloro che hanno l’incarico di indicare al pubblico cose da lodare, da ammirare, da sperare, da ricercare, da chiedere, per lo meno alcuni decidessero in cuor loro di disprezzare recisamente e senza eccezione tutto ciò che non è il bene puro, la perfezione, la verità, la giustizia, l’amore” (pagg.66/67). Ma è difficile che una collettività si lasci guidare da uomini così.
Tutto il conflitto tra personale e impersonale sembra un disperato tentativo di Simone per evitare che l’uomo possa chiudersi dentro il sociale. Per evitare il trionfo di un individualismo senza “trascendenza”, che ci “libera” dai limiti naturali, e ci imprigiona dentro la tana-società.
Perché il sociale è forse la più concreta manifestazione della “caverna” pensata da Platone. Si sta dentro una realtà chiusa, limitata dai “valori” della forza e dell’illusione, e ci si crede “liberi”.
Ma questa limitazione di mondo è possibile non tanto perché qualcuno la impone agli uomini, quanto perché sono gli uomini stessi a volerla. Naufragare nella società sembra essere la soluzione più comoda per vivere: “il pericolo maggiore non è la tendenza del collettivo a comprimere la persona, ma la tendenza della persona a precipitarsi, ad affogare nel collettivo” (45).
Ma per chi ha sperimentato che “il vero bene è trascendente” (Platone), non è possibile cercare di realizzarsi nella società.
Chi, invece, non è stato toccato da questa esperienza, può disporre solamente del sociale per sperare di realizzarsi: “ la persona si realizza soltanto quando il prestigio sociale la gonfia; la sua realizzazione è un privilegio sociale” (52).
E la capacità di parola è spesso uno degli elementi che più concorrono a “gonfiare” la persona; ad appagarla; a farla sentire come il terminale della storia.
E’ stato detto che “il linguaggio è la casa dell’Essere” (M.Heidegger), ma forse l’antropocentrismo cacciato dalla porta, così rientra dalla finestra.
Scrive la Weil: “il linguaggio anche nell’uomo che apparentemente tace, è sempre ciò che formula le opinioni. La facoltà naturale che viene nominata intelligenza è relativa alle opinioni e al linguaggio. Il linguaggio enuncia delle relazioni. Ma ne enuncia poche, perché si svolge nel tempo”.(57).
E’ contro questa resa al tempo, al collettivo, al “personale” che Simone parla; una resa che alimenta la confusione tra relativo e assoluto, tra sociale e trascendente.
“Anche considerando le cose nel modo migliore, una mente racchiusa nel linguaggio è in prigione. Il suo limite, è la quantità di relazioni che le parole possono rendere presenti contemporaneamente alla sua mente……ma la mente si muove in uno spazio chiuso di verità parziale, che del resto può essere più o meno grande, senza poter mai gettare uno sguardo su ciò che è fuori. Se una mente prigioniera ignora la propria prigionia, vive nell’errore. Se l’ha riconosciuta, sia solo per un decimo di secondo, e si è affrettata a dimenticarla per non soffrire, vive nella menzogna. Uomini dall’intelligenza estremamente brillante possono nascere, vivere e morire nell’errore e nella menzogna. In questi l’intelligenza non è un bene e neanche un vantaggio. La differenza fra uomini più o meno intelligenti è come la differenza fra criminali condannati a vita alla galera le cui celle siano più o meno grandi. Un uomo intelligente e orgoglioso della sua intelligenza assomiglia a un condannato orgoglioso di avere una cella grande”. (58/59)
Simone indica agli uomini un cielo più alto di quello conosciuto dal nostro vocabolario; più azzurro di quello analizzato dalla nostra grammatica. Un cielo al di là del nostro cielo, deve non arrivano né i nostri occhi, né le nostre parole.
Ma bisogna aver sofferto la consapevolezza che il nostro “valore sociale” è solo una prigione, per poterlo intuire. E soprattutto è necessario diventare consapevoli che le mura che realizzano questa prigione, sono generate solo dalla nostra menzogna: “Una mente che sente la propria prigionia vorrebbe dissimularla. Ma se ha orrore della menzogna, non lo farà.
Dovrà allora soffrire molto. Batterà la testa contro la muraglia fino allo svenimento; si sveglierà, guarderà la muraglia con timore, poi un giorno ricomincerà e sverrà di nuovo; e così di seguito, senza fine, senza alcuna speranza. Un giorno si sveglierà dall’altra parte del muro.
Forse è ancora prigioniero, in una cornice soltanto più spaziosa. Che importa? Ormai possiede la chiave, il segreto che fa cadere tutti i muri. E’ al di là di ciò che gli uomini chiamano intelligenza, dove comincia la saggezza.
Ogni mente chiusa nel linguaggio è capace solamente di opinioni .Ogni mente capace di afferrare pensieri inesprimibili a causa della molteplicità dei rapporti che vi si combinano, benché più rigorosi, e più luminosi rispetto a ciò che esprime il linguaggio più preciso, ogni mente pervenuta a questo punto è già nella verità”. (59)
Simone è stata capace di questa “verità”, per questo non ha costruito un “sistema” filosofico entro il quale contenere la realtà; per questo non si è chiusa dentro nessuna ecclesia; anche per questo non si è affidata ad una formula “geniale” per leggere il mondo. Perché la “verità” sta nell’aperto, nell’impersonale, nel trascendente, non sarà mai degli uomini, della loro logica, della loro morale.
Ma per rendere la “verità” più “umana”, il Logos in lei si è fatto carne; la cadenza dei suoi pensieri è diventata il ritmo del suo respiro. A lei non è stato sufficiente pensare i suoi pensieri, ha dovuto viverli.
Lei non era “originale”, era profonda. Cercava l’assoluto, non la primazia. Pensava le cose che pensano tutti, solo le pensava alla luce dell’eterno, non sotto l’influsso dell’ultima news.
Anche per questo la persona per lei non poteva essere il “bene” fondamentale da proteggere; perché la persona agisce sempre dentro la “verità” del sociale; e per chi ha sperimentato la distanza infinita che separa il sociale dalla “verità”, la persona può essere un ostacolo, non la via: “non si entra nella verità senza essere passati attraverso il proprio annientamento; senza aver soggiornato a lungo in uno stato di estrema e totale umiliazione” (pag. 59).
Naturalmente non era all’ “umiliazione” che Simone era interessata, ma alla verità che questa umiliazione rendeva ( e rende) sperimentabile dagli uomini. E così aprire gli occhi, come per miracolo, all’ “impersonale”; a qualcosa che può finalmente “radicarci” nel “reale”: “l’essere umano sfugge al collettivo solamente innalzandosi sopra il personale per penetrare nell’impersonale. In quel momento c’è qualcosa in lui, un frammento della sua anima, su cui niente di collettivo può avere alcuna presa. Se può radicarsi nel bene impersonale, cioè diventare capace di attingervi energia, è in grado, tutte le volte che pensa di averne l’obbligo, di opporre contro qualsiasi collettività senza appoggiarsi su nessun’altra, una forza sicuramente piccola ma reale” (pagg. 44/45).
“Ma qui ci si strugge/solo per il luccichio del ferro” (P. Celan, Poesie, Editore Mondadori, Milano,1986, pag.39 ), e la storia degli uomini e delle collettività è solo la storia degli esemplari che più sono stati capaci di utilizzare “il ferro” per la vittoria. Come se la “vittoria” fosse il bene “metafisico” cercato dalla nostra natura animale.
Forse perché con la vittoria è possibile illudere gli uomini di avere qui un certo ruolo, uno scopo, una finalità, e nascondere così a noi stessi che siamo totalmente in balia del caso: “il pensiero umano non può riconoscere la realtà della sventura. Se qualcuno riconosce la realtà della sventura deve dire a se stesso: “un gioco di circostanze che non controllo può togliermi qualsiasi cosa in qualsiasi istante, comprese tutte quelle cose che sono talmente mie che le considero come parte di me stesso. Non c’è niente in me ch’io non possa perdere. Il caso può in qualsiasi momento abolire ciò che sono e mettere al suo posto qualsiasi cosa di vile e di spregevole.”.
Pensare questo con tutta l’anima, significa sperimentare il nulla. Lo stato di estrema e totale umiliazione è anche la condizione del passaggio nella verità. E’ una morte dell’anima” (pag. 60).
Ma è proprio la realtà del nulla che l’uomo vuole nascondersi. Anche per questo valorizza il personale, il sociale, il temporale.
Per non vedere la realtà del tempo, del nulla e della morte, l’uomo è costretto a mentire. E la menzogna non è un “peccato” contro la morale, la religione o la “verità”. La menzogna è un ostacolo alla nostra beatitudine, qui, sulla terra. Perché soltanto chi ha l’onestà per confrontarsi qui con il “male”, può sperimentare qui il bene.
Tino Di Cicco