(Carlo Rovelli, Helgoland, Adelphi)
Helgoland è un’isola dell’estremo nord. Un’isola un po’ favola e un po’ realtà. Un’isola dove nel 1925 un ragazzo di 23 anni di nome Werner Heisenberg si era ritirato per alleviare i problemi causati dalla sua allergia (non c’erano piante sull’isola). E mentre era solo su un’isola del mare del Nord, in piena notte ha una illuminazione: “erano più o meno le tre del mattino, quando il risultato finale dei miei conti fu davanti a me, mi sentivo profondamente scosso. Ero così agitato che non potevo pensare di dormire.”[1] Cosa aveva scoperto il giovane Heisenberg di talmente importante che non riusciva più a dormire? “Aveva gettato per primo lo sguardo su uno dei più vertiginosi segreti della Natura che l’umanità abbia mai intravisto”:[2] i “salti quantici”. Elettroni che invece di seguire orbite regolari, saltavano a caso da un’orbita ad un’altra. Qui comincia a prefigurarsi la teoria dei quanti; una conoscenza in grado di sconvolgere quasi tutto quello che gli uomini credevano di aver capito fino ad allora sulla natura. Una conoscenza che ci dice che nella “realtà” non esiste alcuna “realtà”, se a questa parola associamo il concetto di essere, sostanza, essenza.
Secondo questa teoria non esistono le “cose” come le abbiamo pensate fino ad oggi: tutto è relazione: “le caratteristiche di un oggetto sono il modo in cui esso agisce su altri oggetti. L’oggetto stesso non è che un insieme di interazioni su altri oggetti. La realtà è questa rete di interazioni, al di fuori della quale non si capisce neppure di cosa staremmo parlando. Invece di vedere il mondo fisico come un insieme di oggetti con proprietà definite, la teoria dei quanti ci invita a vedere il mondo fisico come una rete di relazioni di cui gli oggetti sono i nodi.”[3] È sicuramente una teoria che sconfessa non solo quello che ci sembra di vedere con i nostri occhi, ma anche tutto quello che fino ad oggi pensavamo fosse “scienza”: “il mondo si frantuma in un gioco di punti di vista, che non ammette un’unica visione globale… le proprietà non vivono sugli oggetti, sono ponti tra gli oggetti. Gli oggetti sono tali solo in un contesto, cioè solo rispetto ad altri oggetti, sono nodi dove si allacciano ponti.”[4]
Ma un mondo così, in cui tutto è relazione; dove c’è un continuo divenire; dove non c’è niente di permanente, dove c’è tensione invece delle cose, è proprio il mondo di Eraclito! Quell’Eraclito che affermava con nettezza che “nello stesso fiume non è possibile entrare due volte.”[5] E non è possibile entrare due volte nello stesso fiume perché, come dirà quasi tremila anni dopo la teoria dei quanti, “È meglio considerare una particella non come un’entità permanente bensì come un evento istantaneo. A volte questi eventi formano catene che suscitano l’illusione di essere permanenti, ma solo in particolari circostanze e solo per un periodo di tempo estremamente breve in ciascun caso singolo.”[6]
Eraclito aveva intuito quello che millenni dopo gli strumenti della scienza moderna avrebbero dimostrato. Se per la teoria dei quanti “il mondo è la rete delle interazioni”,[7] analogamente per Eraclito “Il sentire è ciò in cui si concatenano tutte le cose.”[8] Tutto è in relazione, pensano all’unisono Eraclito e la teoria dei quanti. Ed esiste una corrispondenza così profonda tra il filosofo di Efeso e il giovane scienziato Werner Heisenberg, che la descrizione di quest’ultimo fatta dall’amico e scienziato Pauli, potrebbe riguardare esattamente anche Eraclito l’“oscuro”: “ragionava in modo terribile, era tutto intuizione, non prestava alcuna attenzione a elaborare chiaramente gli assunti fondamentali e la loro relazione con le teorie esistenti.”[9] In entrambi i casi sembra vedere all’opera l’intuizione allo stato puro; quella che non cerca la “verità” assecondando la logica degli uomini, ma intuendo direttamente la trama di un Logos nascosto. Se non c’è più una “sostanza permanente”, se tutto è un gioco di prospettive; se tutto è relazione, chi, o cosa, dà alla “realtà” quella “consistenza” che per noi è la sua caratteristica fondamentale? Forse gli uomini; forse sono i nostri bisogni ad organizzare una certa rappresentazione della “realtà”. Forse abbiamo guardato più agli oggetti isolati, che alle loro interazioni, perché i singoli oggetti più facilmente possono illuderci sulla stabilità delle cose, e conseguentemente anche sulla nostra stabilità (perché alla fine è questo che ci interessa).
Ma la “vera” realtà è tra le cose, non nelle cose: “la conclusione della teoria dei quanti “è radicale. Fa saltare l’idea che il mondo debba essere costituito da una sostanza che ha attributi e ci forza a pensare tutto in termini di relazioni.”[10] Guardando tra le cose è possibile scoprire che non è la “consistenza” a caratterizzare in modo specifico la “realtà”, ma la “vacuità”: “le cose sono vuote” nel senso che non hanno realtà autonoma, esistono grazie a, in funzione di, rispetto a, dalla prospettiva di qualcos’altro.”[11] Non c’è “sostanza” né in Eraclito, né nel mondo dei quanti, ma solo un relazionarsi-concatenarsi di tutti gli “enti”. E questo concatenarsi, questo eterno essere-in-relazione è la “realtà”: “Ciò che si concatena, invero, è principio e fine del cerchio.”[12] Non c’è quasi pensiero di Eraclito che non denunci l’illusorietà di chi crede che esista qualcosa di stabile, di definitivo, di autonomo: “bisogna seguire ciò che si concatena. E sebbene l’espressione si concateni, i più vivono come se ciascuno avesse un’esistenza separata.”[13] Non troppo diversamente “il cuore dell’interpretazione “relazionale” della teoria dei quanti… è l’idea che la teoria non descriva il modo in cui gli oggetti quantistici si manifestano a noi (o a speciali entità che osservano). Descrive come qualunque oggetto fisico si manifesti a qualunque altro oggetto fisico.”[14]
“Tutto scorre” sia in Eraclito, sia nel mondo dei quanti. Ma non è facile “guardare negli occhi “questo eterno e insensato divenire che è il mondo dentro cui si svolge la nostra vita: “il mondo di fronte a noi – il medesimo per tutti i mondi – non lo fece nessuno degli dèi né degli uomini, ma fu sempre, ed è, e sarà, fuoco sempre vivente, che divampa secondo misure e si spegne secondo misure.”[15] Non è facile perché sconfessa l’ingenua presunzione dell’uomo di avere un ruolo; di avere uno scopo, un “potere”, nell’universo. Sconfessa il nostro bisogno di dividere la realtà in “bene” e “male”; la nostra illusione di avere una centralità dell’universo. Noi abbiamo reso “umano” il mondo, perché dentro un mondo così l’uomo poteva celebrare l’uomo. Abbiamo fatto il mondo uguale a noi, per non soffrire lo spaesamento generato dall’essere entrati in questa incredibile esistenza. Ma Eraclito e la teoria dei quanti ci dicono il contrario: non c’è niente nella “realtà” che ci somigli; niente che collabori con noi per raggiungere i nostri fini; nessuno nell’universo è interessato alle nostre sconfitte e alle nostre sofferenze.
Il mondo di Eraclito e quello dei quanti si accendono a caso, e a caso si spengono: “il principio di indeterminazione non significa che non possiamo misurare con grande precisione la velocità di una particella e poi misurare con grande precisione la sua posizione. Possiamo. Ma dopo la seconda misura, la velocità non sarà più la stessa: misurando la sua posizione perdiamo informazione sulla velocità, cioè se la misuriamo di nuovo la troviamo cambiata.”[16] “La vita è un fanciullo che gioca, che sposta i pezzi sulla scacchiera: reggimento di un fanciullo.”[17] È la continua tensione tra le cose a generare gli oggetti. Quegli oggetti che fin’ora sono sembrati l’origine dei fenomeni, e che invece adesso sono diventati l’effetto dei fenomeni: “la proposta radicale di Mach è di non pensare ai fenomeni come manifestazioni di oggetti, ma pensare agli oggetti come manifestazioni di fenomeni.”[18] È come se fosse passato un uragano sul nostro mondo; come se tutto si fosse scomposto, disarticolato, e noi dopo potessimo mettere a fuoco non più gli aggregati, ma solo le particelle-energie primordiali da cui tutto il visibile deriva. “Il mondo si frantuma in un gioco di punti di vista, che non ammette un’unica visione globale. È un mondo di prospettive, di manifestazioni, non di entità con proprietà definite o fatti univoci. Le proprietà non vivono sugli oggetti, sono ponti tra gli oggetti… il mondo è un gioco di prospettive, come di specchi che esistono solo nel riflesso di uno nell’altro.”[19] Relazioni, soltanto le relazioni sono la “sostanza” del mondo. Tutto è in tutto; le contraddizioni sono solo apparenti; la “realtà” è in continuo divenire: “Il dio è giorno e notte, inverno estate, guerra pace, sazietà fame, e si altera nel modo in cui il fuoco – ogni volta che divampi mescolato a spezie – riceve nomi secondo il piacere di ciascuno.”[20]
In un mondo così non può più parlare di “verità”, ma solo di prospettive. E di un mondo ridotto alla somma di prospettive parla la teoria dei quanti: “il mondo visto dal di fuori non esiste. Esistono solo prospettive interne al mondo, parziali, che si riflettono a vicenda. Il mondo è questo reciproco riflettersi di prospettive.”[21] Ma se si perde la “sostanza” cui abbiamo fatto sempre riferimento; se non c’è più l’Essere, non può esistere più neanche l’Io: “Mach è apodittico: das Ich ist unrettbar.”[22] E l’io non può essere salvato perché non ha consistenza propria. Senza un Essere, senza una stabilità, non c’è più alcun fondamento in grado di giustificarlo. L’io esiste solo perché la grammatica ha bisogno di un “soggetto” per renderci possibile il discorso; perché il “libero arbitrio” ha bisogno di un colpevole quando facciamo esperienza del “male”; perché le “cose” debbono appartenere a qualcuno. Ma se la grammatica è solo una invenzione degli uomini; se il “libero arbitrio” è solo una esigenza per rendere “leggibile” il caos; se le “cose” nel mondo dei quanti non esistono più, anche la “razionalità” dell’io scompare. Se non esistono sostanze, come è possibile dimostrare la sostanzialità del soggetto? Era solo una esigenza della nostra “razionalità” quella che ipotizzava l’esistenza dell’io, non era la realtà. Ma questa “razionalità” non è più razionale dentro la teoria dei quanti.
Manca, forse, in Eraclito una sconfessione dell’io come propone la teoria dei quanti. Ma Eraclito non poteva contestare la “realtà” dell’io, solo perché a quel tempo ragionavano seriamente per prendere in considerazione l’io. Nell’antica Grecia l’idea della soggettività autonoma, dotata di libero arbitrio, era una follia. Nessuno pensava a qualcosa del genere. Solo per questo Eraclito non ha speso parole contro l’autonomia dell’io. Ma noi che siamo stati educati da secoli e secoli di “libero arbitrio”, e abbiamo perciò creduto che esistesse veramente un Io dotato della libertà del volere, noi siamo obbligati a risvegliarci dalla teoria dei quanti: “Io non è altro che l’insieme vasto e interconnesso dei fenomeni che lo costituiscono, ciascuno dipendente da qualcos’altro. Secoli di speculazione occidentale sul soggetto e sulla coscienza svaniscono come brina nell’aria del mattino.”[23] La realtà del nostro “io” era garantita dalla “realtà” delle cose (gli enti) e soprattutto dalla “realtà” del massimo degli enti: il Dio Onnipotente. Se viene meno il fondamento, crolla anche la “realtà” dell’io: “io che vedo una stella? Esisto? No, neppure io. Chi vede la stella allora? Nessuno, dice Nagarjuna. Vedere la stella è una componente di quell’insieme che convenzionalmente chiamo il mio io.”[24]
Come è facile talvolta girare l’angolo e vedere tutto con occhi nuovi!Millenni di dibattiti sui “fondamenti” del nostro esistere possono essere azzerati da uno sguardo liberato dalla “gravità” che ci teneva incatenati ad una illusione. “Comprendere che non esistiamo come entità autonome ci aiuta a liberarci dall’attaccamento e dalla sofferenza. Proprio per la sua impermanenza, per l’assenza di ogni Assoluto, la vita ha senso ed è preziosa.”[25] E, conclude il capitolo Carlo Rovelli, “a me come essere umano Nagarjuna insegna la serenità, la leggerezza e la bellezza del mondo: non siamo che le immagini di immagini. La realtà, inclusi noi stessi, non è che un tenue e fragile velo, al di là del quale… non c’è nulla.”[26] Forse è lo stesso nulla dove sono “naufragati” i mistici di tutta la terra. Dove è scomparsa la loro “volontà”, la loro “libertà”, la loro “identità”. Quel nulla che è l’antagonista più irriducibile alla nostra infantile presunzione di essere i padroni dell’universo. C’è chi ha bisogno di vedere se stesso nello specchio per sperare così di avere qualche certezza; chi invece crede di trovare una stabilità solo attraverso il possesso delle cose; e chi, come i mistici, si realizza solo attraversando l’esperienza del nulla.
Perché è vero quello che scrive Meister Eckhart: “L’occhio nel quale io vedo Dio, è lo stesso occhio in cui Dio mi vede; l’occhio mio e l’occhio di Dio non sono che un solo occhio, una sola visione, un solo amore.”[27] Siamo quello in cui dobbiamo identificarci; non c’è scelta. La strada che ci porta attraverso il nulla è la strada più difficile, perché camminando nel nulla siamo costretti ad essere soli, e l’uomo giustamente teme la solitudine.Ma chi per fortuna viene spinto nei territori del nulla, anche se all’inizio dovrà pagare il prezzo della “notte oscura”, poi senza alcun perch, e soprattutto senza alcun merito, può diventare gioia.
Tino Di Cicco
[1] Carlo Rovelli, Helgoland, Adelphi, Milano 2020, pag. 21.
[2] Ibid, pag. 213.
[3] Ibid., pag. 87.
[4] Ibid., pag. 95.
[5] Giorgio Colli, La sapienza greca, vol. III, Eraclito, Adelphi, Milano 1980, pag. 57.
[6] C. Rovelli, Helgoland, cit. pag.93.
[7] Ibid., pag. 91.
[8] G. Colli, La sapienza greca, cit. pag. 31.
[9] C. Rovelli, Helgoland, cit. pag. 33. [10] Ibid., pag. 143.
[11] Ibid., pag. 151.
[12] G. Colli, La sapienza greca, cit. pag. 31.
[13] Ibid., pag. 31.
[14] C. Rovelli, Helgoland, cit, pag. 84.
[15] G. Colli, La sapienza greca, cit. pag. 45.
[16] C. Rovelli, Helgoland, cit. pag. 113.
[17] G. Colli, La sapienza greca, cit. pag. 35.
[18] C. Rovelli, Helgoland, cit. Pag. 133.
[19] Ibid., pag. 95.
[20] G. Colli, La sapienza greca, cit. pag. 91.
[21] C. Rovelli, Helgoland, cit. pag. 178.
[22] Ibid., pag. 180.
[23] Ibid., pagg. 151/2.
[24] Ibid., pag. 151.
[25] Ibid., pagg. 155/6.
[26] Ibid., pag. 156.
[27] Meister Eckhart, La nobiltà dello Spirito, Piemme, Casale Monferrato 1996, pag. 131.