Venti racconti, brevi ma documentatissimi, fanno giustizia di miti, leggende e convinzioni errate attraverso un affascinante viaggio nello spazio e nel tempo. Da Ercolano al banchiere Roberto Calvi
Un articolo a cura di Maurizio Di Fazio per www.repubblica.it (7 maggio 2021)
Tavoli anatomici. Microscopi binoculari. Prelievi, analisi chimiche. Microfoni ultrasensibili, dissezioni di povere spoglie mortali. Bisturi, e radiografie. “L’antropologo medico è un mestieraccio brutto e difficile, ma ogni tanto utile al prossimo, oltre che alla scienza”. Capace, pur restando a latere della scena, come una voce narrante fuori campo, di rimetterci in connessione con i nostri antenati. La grande ricerca storica transita anche sui binari di questo lavoro misconosciuto. Quando l’analisi di ossa e “macabri resti” rimodula e sovverte certe convinzioni cristallizzate sul nostro passato recente o remoto.
“L’antropologo. Storie di scheletri e di mummie”, da poco uscito per Mondo Nuovo e scritto da Luigi Capasso, è un viaggio nello spazio e nel tempo, in una dimensione viscerale e per nulla grandguignolesca. Venti racconti brevi, attinti dall’esperienza personale sul campo dell’autore, che disvelano verità inaudite e fanno giustizia di miti e leggende. Epifanie del cuore oltre che della mente. Come morì il “banchiere di Dio”, ritrovato appeso nel 1982 sotto un ponte londinese con chili di pietre in tasca? Qual era l’esistenza quotidiana degli abitanti di Ercolano prima dell’eruzione del 79 d.C, e degli australopitechi sudafricani? Da dove scaturiva quel dito sollevato e messo nella piaga del costato di Cristo di San Tommaso, l’apostolo? (Risposta esatta e accertata a quest’ultimo dilemma: dalla “variante scandinava” di una malattia ben precisa, la spondiloartrite anchilopoietica). Capasso è uno dei più noti esperti italiani e internazionali in materia. Ha diretto il servizio nazionale di antropologia del ministero dei beni culturali. È ordinario all’università di Chieti e ha insegnato a Firenze, Napoli e Granada. Ha pubblicato centinaia di articoli scientifici, alcuni dei quali finiti pure in prima pagina su The Lancet.
Lei ha iniziato a svolgere questa professione nel 1980. Come maturò la scelta?
“Se avessi seguito la mia passione, avrei fatto il paleontologo, ma scelsi la facoltà di Medicina: dava più opportunità di lavoro. Già negli ultimi anni di università, però, cercai un possibile terreno di confine tra la paleontologia e la medicina, e lo trovai nell’Antropologia: con metodi medici mi sarei occupato di resti antichi e fossili. Un buon compromesso”.
Ha poi studiato scheletri e mummie di migliaia di uomini. Cosa prova a ogni sua nuova scoperta?
“C’è sempre una combinazione tra razionale ed emozionale. Il risultato scientifico positivo dà sempre piacere, o soddisfazione: corona un protocollo di ricerca rigoroso, ma raramente viene centrato senza un contributo di fantasia, strade nuove e non convenzionali utili anche a superare i momenti di stallo. Questo aumenta il sapore di avventura che accompagna la ricerca scientifica, quella vera”.
E cosa ci dicono i “macabri resti” del passato?
“Quasi sempre sono la sola traccia materiale di persone che ci hanno preceduto nel tempo. E che hanno perso la loro voce, anzi, qualsiasi capacità di interagire con il nostro mondo. L’antropologia è anche questo: un insieme di metodi e tecniche che restituiscono la parola a questi resti, informazioni che raccontano, ora per allora, le caratteristiche di quegli individui, il loro modo di vivere, le loro relazioni, la causa della loro morte”.
A proposito: non prova mai paura, o raccapriccio, nel manipolare sarcofagi et similia?
“Non ci si abitua mai. Questo è un lavoro difficile, si ha a che fare quotidianamente con la morte. Ma non c’è ansia, e men che mai disgusto, a patto di provare un rispetto autentico e costante nei loro confronti”.
I segreti non possono considerarsi chiusi definitivamente dentro una tomba?
“Già, nessun segreto è per sempre, se c’è in giro un antropologo. Spesso sono segreti apparenti. Ad esempio, oggi possiamo scoprire la vera causa della morte di gente mancata secoli fa solo perché adesso abbiamo conoscenze, strumenti e procedure che semplicemente non esistevano all’epoca. Inoltre la maggior parte del nostro lavoro è applicata a resti che attengono a crimini, e perciò ci viene richiesto espressamente dagli inquirenti di cercare, di riportare alla luce tracce di azioni traumatiche. Chi le ha compiute, le ha camuffate di certo: ha fatto in modo di renderle invisibili. Il nostro lavoro, la nostra abilità è proprio quella di rendere evidente ciò che qualcun altro aveva voluto celare. Decenni o secoli prima”.
Quali sono le vicende che l’hanno maggiormente colpita nel corso della sua attività quarantennale? E le scoperte a cui tiene di più?
“Ogni caso ha lasciato un segno. Però quello di Santa Rosa da Viterbo è straordinario. Quando fui chiamato nella “città dei Papi” e mi trovai a eseguire una radiografia del corpo mummificato della santa, per accertarne lo stato di conservazione, scoprii che mancava lo sterno: un osso importante, necessario alla respirazione. Come poteva una condizione congenita tanto debilitante averne consentito la sopravvivenza fino a vent’anni? Un episodio che non ha paragoni, resta un unicum nel panorama medico. Ed ecco la questione: tu arrivi con tutti i tuoi saperi, il tuo metodo galileiano, i tuoi sofisticati strumenti scientifici. E invece trovi solo domande. E che può fare la scienza di fronte al miracolo? Non ci sono risposte, non scientifiche almeno”.
Come morì davvero Roberto Calvi?
“È stato ucciso in un luogo diverso da quello in cui è stato ritrovato il suo cadavere, sotto al ponte dei Frati Neri a Londra. Nelle sue vertebre cervicali non ho trovato traccia di microfratture, che sono tipiche dell’impiccagione (auto o etero che sia): dunque, il suo corpo è stato “adagiato” alla corda. Nello scheletro della laringe c’erano lesioni incompatibili con la sospensione di un soggetto che respirava. Infine, nelle sue unghie non ho trovato rimasugli né delle vernici, numerose, che incrostavano l’impalcatura alla quale era sospeso il corpo, né delle “pietre” che aveva negli abiti. Tuttavia vi erano tracce di un trascinamento su una superficie accidentata, e di minerali presenti in un cantiere edile duecento metri a valle, lungo il Tamigi: era quello il vero scenario della morte. Quattro anni di lavoro minuzioso, tutto condotto su tracce microscopiche e chimiche ma che non erano ancora scomparse 18 anni dopo”.
Mi parli di Ercolano.
“Sulla spiaggia delle sue terme suburbane furono trovati gli scheletri di oltre 150 persone: i cosiddetti “fuggiaschi”, deceduti nel 79 d.C. C’erano bambini piccoli e persino una donna che non era in grado di camminare: la presenza di queste persone dimostra che l’evacuazione della città avvenne con calma, in ordine, anche se fu ugualmente inefficace alla salvezza. Tutti morirono in pochi istanti, soffocati dalla violenta nube ardente conseguente al collasso della colonna eruttiva sul Vesuvio. Il tutto accadde di notte: alcune matrone indossavano ancora la retina per capelli, come quella che usava mia nonna prima di andare a letto. Un terzo della popolazione adulta presentava tracce ossee di brucellosi: non mangiavano pesci (come parrebbe ovvio in un posto di mare), ma formaggio di pecore. In una forma carbonizzata, abbiamo rinvenuto brucelle perfettamente conservate, a distanza di 2 mila anni. Non c’erano malattie infiammatorie gravi, ma evidenze di tetracicline nelle ossa: l’abbiamo scoperto nei melograni conservati e questi ultimi, secondo le ricette mediche di Celso, venivano decotti e usati come medicina. Un fanciullo di otto anni aveva un braccio rotto, fasciato con una stecca di legno di vite, resistente ma flessibile, molto efficace. Tanti con lesioni alla faccia interna delle costole, secondarie a infezioni della pleura dovute a un accumulo di particelle di carbone nei polmoni: l’aria delle case era carica di fuliggine, per la combustione delle lanterne e i fumi delle cucine. Quasi tutti avevano i pidocchi: ne ho trovate le uova aderenti a capelli fossilizzati. E potrei andare avanti per ore: dettagli incredibili di una società complessa, evoluta, con gente che si grattava sempre un po’ la testa”.
Perché l’uomo del ghiaccio aveva il corpo istoriato di tatuaggi e si nutriva di cibi tossici?
“I tatuaggi erano semplici linee incise che interessavano la pelle al disopra di articolazioni affette da artrosi (come dimostrammo grazie alle radiografie): si trattava di una sorta di terapia micro-chirurgica locale del dolore articolare delle ginocchia, delle caviglie della colonna lombare. Anche alcuni medici romani praticavano l’ustione delle ginocchia artrosiche e nella medicina popolare tibetana, fino a tempi storici, si praticava il tatuaggio a scopo terapeutico del dolore locale. Inoltre Otzi era affetto da vermi intestinali e consumava piccole dosi di un fungo legnoso secco, tossico, che, ho scoperto, conteneva anche sostanze naturali vermifughe. Recentemente un gruppo di farmacologi polacchi ha estratto queste sostanze, promettendone una prossima purificazione e sperimentazione sull’uomo: ecco una scoperta medica all’avanguardia, che viene da una ricerca antropologica su resti vecchi di 5 mila anni. Insomma l’uomo del ghiaccio era certamente antico, ma non primitivo, in ambito medico”.
Una curiosità sulla formula del suo libro. In che modo i disegni sono riusciti a sottolinearne il contenuto?
“A illustrarlo è stata mia figlia, Maria Chiara Capasso, designer professionista, nata con il lapis in mano. I disegni integrano il racconto scientifico, fatto di parole, con quel sapore emotivo che aggiunge atmosfera. Con pochi tratti, schiudono vere e proprie finestre sul passato, rendendo la lettura, e la visione, del libro, un viaggio in una macchina del tempo”.
Ai suoi studenti che consigli dà?
“Umiltà, per abbracciare risultati inattesi e inseguire spiegazioni alternative alle ipotesi di partenza. L’unica strada per il progresso scientifico”.
FONTE: www.repubblica.it/cultura