I tre testi che presentiamo in anteprima (con tutte le cautele del caso) riflettono alcune delle molteplici anime di una recentissima raccolta di poesie Folli pensieri e vanità di core. Trentuno poesie attribuite a Dante (a cura di Matteo Veronesi, Edizioni Mondo Nuovo, Pescara 2021, pp. 136, euro 15), variamente poste sotto il nome di Dante da antichi manoscritti, ma successivamente, e forse affrettatamente, bollate come apocrife da una filologia troppo severa, se non a volte cieca – e qui si potrebbe quasi ricordare l’invettiva di Ezra Pound, nel Canto XIV, contro i filologi che,
«seduti su pile di pietrosi volumi,
/ oscurano i testi con filologia, / occultandoli dietro le proprie persone».
LETTERA VS SPIRITO
Nel libro in questione, peraltro, la prefazione rigorosissima del De Laurentiis, il quale ripercorre (dai pionieri ottocenteschi al Barbi, al Contini, al De Robertis fino alle edizioni più recenti) il progressivo, severo e minuzioso restringersi del canone delle poesie sparse considerate legittime parti del genio dantesco, fa quasi da contrappeso all’ardita vena del curatore: il quale, in modo a volte quasi pascoliano, si sforza di cogliere, anche e soprattutto in questi testi poco noti, marginali, chiaroscurali, contrastati, i sensi nascosti sotto il velo della lettera, nella convinzione che spesso proprio l’eccessivo, folto spessore di quel velo abbia troppo contrariato e insospettito la critica, inducendola a rigettare questi versi.
DANTE, POETA TEOLOGO
Versi la cui natura conferma ulteriormente, se mai ce ne fosse bisogno, la Musa di poeta theologus – artefice di quello che fu definito un vero e proprio «epos della Grazia» – che soffiò in Dante: in netto contrasto, dunque, con la tendenza odierna, specialmente oltreoceano, a «de-teologizzare Dante», a pretendere di costringere, anacronisticamente, perfino il poeta cristiano per eccellenza (e proprio per questo, secondo Eliot, il più universale di tutti i poeti) entro le maglie di un relativismo, un razionalismo e una secolarizzazione del tutto moderni.
Eco, in un saggio fin troppo citato, vedeva nell’allegoria dantesca una contrapposizione alla concezione medievale, scolastica della poesia come «infima doctrina», lontana (con i suoi veli, i suoi artifici e i suoi inganni ambiguamente impregnati di celate verità) dalla razionalità filosofica e teologica.
Sennonché proprio Tommaso, nel commento alla Metafisica, sulle orme di Aristotele e di Agostino, si richiamava a quei poetae theologi come Omero e Orfeo, ai «creatori di miti» che, proprio perché vicini agli «universali fantastici» di un pensiero originario e intuitivo, sono «per natura filosofi». Un’idea, questa del discorso poetico come divino alieniloquium, come discorso altro e diverso da quello ordinario perché teso al superamento dell’umano, che giungerà fino a Petrarca, che molti vorrebbero invece per eccellenza laico, terreno e mondano.
OMERO & ORFEO, POETI FILOSOFI
Omero e Orfeo, si è detto.
Di Omero, «poeta sovrano», Dante non conosceva che pochi frammenti, attraverso fonti latine (all’argomento Giovanni Cerri, recentemente scomparso, dedicò un esile ma densissimo libro, Dante e Omero. Il volto di Medusa, Argo, Lecce 2007, suprema testimonianza di fervido, assoluto Umanesimo). Il che non gli impediva, grazie a Macrobio, di annoverare anche lui fra i cantori di sapienza che velavano sotto molteplici e nebulose fabulae poetiche, «sub poetici nube figmenti», verità profonde e remote. Orfeo, nel Convivio, è visto come allegoria della forza civilizzatrice della parola, dell’armonia e del canto che prevalgono sulla materia bruta delle pulsioni primarie. Questo stesso sfondo concettuale soggiace ai tre testi presentati, e li accomuna.
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(Luca Monterone per Studi Cattolici, ottobre 2021)