“Legislatore vigliacco sul suicidio assistito. Dopo il caso di Mario non si nasconda più”

Colloquio con Marco Billi, magistrato e autore del libro “Soli nel fine vita”: “Non avere una norma significa lasciare i pazienti in balia di nessuno. Anzi, di tutti”

www.huffingtonpost.it

Articolo di Federica Olivo del 25/11/2021

La storia di chi vuole intraprendere la strada del suicidio assistito, perché non ce la fa più a sopportare una malattia totalmente invalidante, né la dipendenza dalle macchine, è una storia di solitudine. Della persona malata, che magari in questo calvario ha il sostegno della sua famiglia e delle associazioni, ma la sua patologia non può che affrontarla solo, con il suo corpo. Sola è la persona malata, ma lo sono anche il suo medico e, se ci si arriva, il suo giudice. Il primo perché di fronte alla richiesta di porre fine alla sofferenza non sa come muoversi. Non sa cosa è legale o no, perché una legge non c’è. Il secondo perché è abituato a decidere con il codice in mano, e invece in questo caso non ha una norma di riferimento. Si trova così a emanare una sentenza nel nome del popolo italiano, nella più delicata delle materie, senza che un legislatore gli abbia scritto nel dettaglio cosa fare. Alcune indicazioni gli sono arrivate dalla Consulta nel 2019, sono anche precise, rendono meno fitta la nebbia. Ma non bastano. Non possono più bastare neanche oggi, dopo che Mario – per l’Italia si chiama così ma è un nome di fantasia – dopo 14 mesi di lotta ha ottenuto dal comitato etico della sua Asl, nelle Marche, di poter porre fine a quella che per lui non è più vita. 

Alla solitudine di chi si trova ad affrontare la battaglia per il fine vita, e a quella di chi per il suo lavoro deve prendere una decisione avendo a disposizione solo una parte degli strumenti necessari, ha dedicato un libro Marco Billi, giudice a L’Aquila ed esperto delle questioni giuridiche che riguardano eutanasia e suicidio assistito, scritto alla luce della sentenza della corte Costituzionale sul caso Cappato. Il titolo è eloquente: Soli nel fine-vita. Il caso Cappato e la necessità di una legge”. La vicenda di Mario, che ha risvegliato il dibattito sul tema, è la diretta conseguenza di quella decisione della Consulta, arrivata dopo che a niente era servita la raccomandazione, fatta al Parlamento, di dare, finalmente, al Paese una legge sul fine vita. A Mario sarà concesso di morire.  Tutto risolto, dunque? La legge non serve più? Tutt’altro. “La corte Costituzionale – spiega Marco Billi all’Huffpost – aveva lanciato un monito molto pesante. Inascoltata, è stata costretta a dichiarare parzialmente incostituzionale l’articolo 580 del codice penale. E così è stato stabilito che una persona in grado di prendere decisioni libere e consapevoli, affetta da una patologia irreversibile che le arreca sofferenze intollerabili e tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale, può chiedere di essere accompagnata al suicidio assistito. Chi la aiuta in questo percorso, quindi, non commette il reato di aiuto al suicidio”. Questa decisione, però, non è che un punto di partenza. Senza una legge che disciplini bene i passaggi del suicidio assistito si costringe la persona che vuole accedervi a un altro calvario, fatto di carte, passaggi burocratici, rimpalli. Quello di Mario è durato 14 mesi e non è ancora finito. La regione sostiene che la palla ora passa al tribunale di Ancona, perché il comitato etico non è stato preciso sulle modalità del suicidio assistito. Ma l’associazione Luca Coscioni, che ha seguito Mario nella sua battaglia, tiene a ricordare che, in realtà il tribunale già si è espresso.

Così come il percorso del marchigiano è stato lungo, altrettanto potrebbe esserlo quello di tutte le persone che come lui hanno il diritto di porre fine alla loro sofferenza – perché di diritto si tratta, dopo la sentenza della corte Costituzionale non ci si può nascondere più – ma non hanno ancora una legge a cui poter fare riferimento.

“L’ho detto e lo ripeto, il legislatore su questo tema è stato, ed è, vigliacco. Perché rimanere inerti di fronte a questo tema equivale a giocare con il dolore delle persone. È vigliaccheria. Così come il paziente in stato terminale è messo con le spalle al muro dalla malattia, che lo costringe a scegliere, anche il Parlamento dovrebbe sentirsi costretto a legiferare”, sostiene Billi. Alla Camera, in commissione giustizia, una proposta di legge c’è. Sarebbe dovuta approvare in Aula il 22 ottobre, poi il 25 novembre, poi ancora il 29 novembre. Non è sicuro che ci arrivi neanche questa volta, perché ancora non si è arrivati a un testo base che metta d’accordo tutti. Questa situazione, lo pensa Billi ma non è il solo, non è più accettabile. “Basterebbe partire dalle prescrizioni della Consulta, poi però è necessario fare in modo che la normativa ricopra tutti gli aspetti di questo tema. Uno di questi è l’obiezione di coscienza”. Al momento, infatti, una volta che arriva il via libera del giudice e del comitato etico – come nel caso di Mario – in linea di principio un medico non si può rifiutare di assistere il paziente mentre morde la fialetta o preme il pulsante che interrompe l’esistenza che giudica intollerabile. Una legge consentirebbe al sanitario che non se la sente di dire no. Ma, almeno, darebbe la possibilità a chi ormai ha deciso che essere attaccato a una macchina e soffrire in modo indicibile non è più vita, di lasciare il mondo con più serenità. Senza dover sfidare oltremisura la burocrazia.

″È arrivato il momento di mettere da parte le ideologie e dotare il nostro Paese di una legge che permetta l’autodeterminazione della persona nel rispetto della sua dignità”, ha detto ieri Nicola Provenza, relatore del testo sul suicidio assistito insieme al dem Alfredo Bazoli. Quanto sarà ascoltato il suo appello si capirà nei prossimi giorni, se non addirittura nelle prossime ore. “Non si può andare avanti così – incalza Billi – e non ci si può neanche nascondere dietro un dito adducendo come ostacolo la presenza della Chiesa. Quando vuole il legislatore, vedi il caso del divorzio, dell’aborto, ma anche dello stop ai trattamenti salvavita, sa contrapporsi a quel mondo”. Quello dell’interruzione di trattamenti come l’alimentazione con il sondino o il respiratore automatico è un capitolo a parte: “C’è una legge, del 2019 – prosegue il magistrato – che consente a una persona malata di rifiutare, o di interrompere, in qualunque momento, la nutrizione o la respirazione artificiale. In quel caso il paziente muore di inedia, ma si può ricorrere alle cure palliative, alla sedazione profonda”. Tutto ciò è perfettamente legale, ma non tutti vogliono fare ricorso a questo iter: “C’è chi, come dj Fabo, non li considera dignitosi. Chi, invece, non può appellarsi a questa norma perché, come Davide Trentini, era sottoposto a trattamenti indispensabili alla sua esistenza, ma non attraverso dei macchinari”. Ecco che allora, disciplinare il suicidio assistito serve, per coprire i casi in cui la legge sulle cure palliative non è applicabile. E per rispettare chi non considera dignitosa questa procedura.

Quanto il tema del fine vita sia sentito dai cittadini è stato evidente durante la raccolta di firme per il referendum che potrebbe celebrarsi la prossima primavera: hanno firmato perché il quesito potesse arrivare alle urne 1 milione 200 mila cittadini. Un’adesione fortissima, che lascia pochi dubbi su quanto il Paese sia pronto. E su quanto non lo sia, invece, il suo legislatore. Il referendum, però, non tocca l’aiuto al suicidio, ma riguarda direttamente l’eutanasia. Perché si propone di cancellare in parte l’articolo 579 del codice penale, che riguarda l’omicidio del consenziente: “Intervenire su questa norma significa cancellare l’ipocrisia di fondo per cui sarebbero esclusi dal fine vita i malati che non possono autosomministrarsi il trattamento che pone fine alla loro esistenza”, spiega ancora Billi. “Il referendum liberalizza l’eutanasia. Io credo che andrebbe però legalizzata. Che vadano disciplinate per bene le modalità esecutive”. Così come per il suicidio assistito non basta la Consulta, dunque, per l’eutanasia potrebbe non bastare il referendum. Se il quesito passerà, e se il Parlamento continuerà a temporeggiare, ci saranno meno paletti per l’eutanasia che non per il suicidio assistito.

Scuse, insomma, per il legislatore non ce ne sono più: “Non si vuole uccidere nessuno – continua Billi – ma neanche costringere a vivere le persone che si trovano a patire sofferenze indicibili e hanno una patologia irreversibile. E che sono in grado di decidere della loro vita. Lasciarli senza strumenti – conclude il magistrato – significa lasciarli in balìa di nessuno. Anzi, in balìa di tutti”.

Fonte: www.huffingtonpost.it

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