di Stefano Cremonini
La consapevolezza del proprio valore, che secondo i canoni della magnanimitas Dante non nega mai a se stesso nelle sue opere, non lo indusse purtroppo a compiere, per le sue Rime, quell’operazione, se vogliamo molto concreta e persino artigianale, che mezzo secolo dopo avrebbe messo in campo Francesco Petrarca: ad allestire, cioè, un manufatto, un codex, che riunisse in modo inoppugnabile la propria produzione lirica, garantendone in questo modo la genuina paternità.
È a tutti ben noto che di Dante non possediamo neppure un autografo, e che le sue Rime, lungi dal costituire un corpus organico, magari dotato di un’intenzionale progressione di senso, come saranno appunto il Canzoniere di Petrarca e, sulle sue orme, quelli dei petrarchisti quattro-cinquecenteschi, si presentano piuttosto come un laboratorio sperimentale in continuo divenire, in cui è dato rintracciare testi fra loro diversissimi per contenuto e stile.
A voler essere ipergarantisti, certo, solo per le trentuno poesie inserite dallo stesso autore nel prosimetro della Vita nova, quelle che egli cita come sue nel De vulgari eloquentia, e le tre canzoni da lui commentate nel Convivio si potrebbe parlare di autenticità sicura al cento per cento: tutte le altre Rime assumono ipso facto lo statuto di “extra-vaganti”, nel senso etimologico del termine.
A fare ordine in questo corpus magmatico, secondo i criteri rigorosi e scientificamente, ma anche asetticamente “oggettivi” della scuola storica, fu nella prima metà del secolo scorso Michele Barbi, che nella sua edizione del 1921 – sesto centenario della morte di Dante – ripartì le Rime in cinquantaquattro sicuramente attribuibili al poeta, più ventisei di dubbia attribuzione: su tutti gli altri testi, per i quali non di rado una secolare tradizione manoscritta e a stampa aveva avanzato la paternità dantesca, è calato da quel momento un velo di oblio, che neppure le successive edizioni di Gianfranco Contini e Domenico De Robertis hanno dissipato.
Ora, per un altro centenario e a un secolo esatto dalla prima edizione curata da Barbi, Matteo Veronesi, critico e fine comparatista dagli interessi enciclopedici, oltre che sensibile poeta, propone all’attenzione di un pubblico non solo di specialisti un’agile edizione di «trentuno poesie attribuite a Dante», con il titolo, costituito dall’incipit di una di esse, di Folli pensieri e vanità di core.
Dirò subito che, da parte del curatore, questa edizione mi pare un’operazione coraggiosa, e questo per due motivi. Anzitutto perché insinua qualche dubbio rispetto a una prassi ecdotica che, almeno fin dai tempi di Barbi, ha assunto come parole d’ordine “cautela” e “prudenza”, che si traducono poi, a volte, in nette delimitazioni di campo, in un procedere fra i reperti testuali con i piedi di piombo, per non dire con un atteggiamento di continuo sospetto. Ancora di più, però, si dimostra coraggiosa la scelta di pubblicare, oggi come oggi, una scelta di testi trecenteschi (perché tale sarà la datazione della maggior parte di essi), e testi di non facile lettura, anzi spesso ardui, ermetici, indipendentemente dal fatto che Dante ne sia o meno l’autore: ciò significa avere ancora fiducia in quei venticinque lettori di manzoniana memoria (ma ci auguriamo ovviamente che siano ben più numerosi), i quali abbiano conservato il desiderio di cimentarsi in una quête laboriosa ma intrigante, che potrà riservare le sue soddisfazioni.
In tale avventurosa ricerca, e in tale fatica, beninteso, questi lettori non si ritroveranno soli, ma potranno fruire del viatico delle ampie, documentate e suggestive note esegetiche con cui Veronesi ha corredato ogni testo, in particolare a chiarificazione dei passaggi filosoficamente più criptici o di immagini e concetti che acquistano nuova luce a partire dalla ricchezza di puntuali rimandi intertestuali.
Il modus operandi dell’editore (e curatore e commentatore) è bene illustrato da Rossano De Laurentiis nella Prefazione al volume: è come se da parte di Veronesi ci fosse un tentativo di «fare tabula rasa dei preconcetti», di andare oltre la mera «razionalità stemmatica» di ascendenza barbiana, per rivalutare l’intuito – che non è però, e Veronesi lo sa bene, arbitrio aleatorio – del «Connaisseur-divinatore». De Laurentiis chiarisce esplicitamente che la paternità di questi testi è «destinata a restare ignota o sub iudice»: il merito dell’editore, quindi, sarà di aver messo a disposizione dei lettori una raccolta di testi che già la tradizione antica – o un ramo di essa – aveva fatto gravitare intorno al nome di Dante, con tutte le licenze e gli arbitri attribuitivi, il più delle volte a fini nobilitanti, tipici di un’epoca a cui era ignoto il diritto d’autore.
Va da sé che Veronesi, pur apparendo come un interprete “ispirato”, e a tratti incline a suggestioni preraffaellite o simboliste, alla Pascoli, è però un interprete avveduto e prudente. Lo si comprende chiaramente dalle affermazioni conclusive della sua Introduzione, laddove afferma che
anche questi testi dubbi e contestati […] rispecchiano, direttamente o indirettamente (lungo il sottile crinale fra autenticità e apocrifia, creazione primaria e ricezione creativa, e rielaborazione, magari deformazione, di un modello venerando, ma assai difficilmente emulabile), i tratti perenni e sfaccettati del messaggio dantesco […]. Questi testi costituiscono, se non altro, un capitolo significativo di storia del gusto e della cultura […].
Si tratta, pressappoco, delle stesse considerazioni che già Vittorio Cian faceva presentando, postuma, l’ancora esemplare edizione Solerti delle Rime disperse di Petrarca, edita nel 1909: «Anche nei casi nei quali l’attribuzione di certe rime al Petrarca si presenta addirittura come inammissibile, assurda […], saranno se non altro materiali utili a quella storia della fortuna del Petrarca, che abbisogna ancora di tante indagini per essere fatta compiutamente» (p. XXXI).
Scendendo ora più nei particolari, tenterò di formulare poche riflessioni sparse su qualche testo, non certo da dantista di professione, ma piuttosto da lettore e cultore della lirica dei primi secoli. Occorre dire subito che alcune delle poesie pubblicate da Veronesi erano già state promosse a “dubbie” (con il caso di un testo ritenuto addirittura genuino) da almeno uno dei critici che ho citato in precedenza: si tratta nella fattispecie di Amore e Monna Lagia e Guido ed io (dubbia per Barbi e Contini, autentica per De Robertis), Molti, volendo dir che fosse Amore (dubbia per tutti e tre i critici), Donne, i’ non so di ch’io mi prieghi Amore (dubbia per tutti e tre i critici), Nulla mi parve mai più crudel cosa (dubbia per Barbi e Contini) e Deh, piangi meco tu, dogliosa petra (dubbia per Barbi e Contini).
Per altri testi esistono attribuzioni concorrenti: le canzoni La gioven donna cui appello Amore (di soli endecasillabi) e A voi, gentile Amore sono state ascritte al non meglio identificabile “Amico di Dante” (l’appellativo si deve a Contini), mentre la stanza di canzone Li più begli occhi che lucesser mai e il sonetto Io son sì vago della bella luce vengono ritenuti opera di Cino da Pistoia (e, in effetti, l’incipit del primo componimento è pressoché identico, a parte l’articolo iniziale che sostituisce la preposizione, al secondo verso della celebre canzone ciniana La dolce vista e ’l bel guardo soave). Sempre a Cino Giosue Carducci, sulla scia di altri critici che lo avevano preceduto, attribuì la canzone politica L’alta virtù, che si ritrasse al cielo e la stanza di canzone Poi che saziar non posso gli occhi miei; a un tale Cristoforo da Monte, secondo l’Enciclopedia dantesca che cita il ms. Trivulziano 1058, andrebbe ricondotto il sonetto Da quella luce che ’l suo corso gira, mentre Raffaella Zaccaria, nella voce Frescobaldi, Giovanni da lei curata per il Dizionario biografico degli Italiani (vol. 50, 1998), attribuisce a questo rimatore vissuto fra Due e Trecento il sonetto Della [Ne la nell’ed. Veronesi] mia mente, ove ’l desio s’informa.
Un’altra grande canzone, Nel tempo che s’infiora e copre d’erba, è presente, con alcune varianti, nell’antologia dei Rimatori del Trecento, curata nel 1969 da Giuseppe Corsi, che l’assegna senza dubbio a Fazio degli Uberti, concorrente di Dante nelle attribuzioni della tradizione manoscritta (il testo, per la verità, era già stato edito dallo studioso diciassette anni prima, in coda alla sua edizione del Dittamondo); un’altra canzone, non amorosa ma potremmo dire “ecclesiologica”, Io fui ferma Chiesa e ferma fede, è invece, per lo stesso Corsi, opera di Giannozzo Sacchetti, lo sfortunato fratello di Franco, e quindi di oltre mezzo secolo successiva alla morte di Dante.
A proposito del primo testo, Veronesi ne rileva la notevole profondità espressiva e tematica, che potrebbe far pensare a un autore ben più colto e versatile di Fazio: quest’ultimo, tuttavia, pur oggettivamente incapace di attingere i vertici del pathos dantesco, non mi pare debba essere escluso a priori dalla partita attributiva, tanto più che è stato considerato dalla critica più recente come un poeta «originale e moderno» e uno «sperimentatore radicale» (cfr. Antonio Lanza, La letteratura tardogotica, Anzio, De Rubeis, 1994, pp. 375 e 377), autore di rime che pure «risentono ampiamente delle più alte tradizioni tardo-duecentesche», e in particolare proprio delle «petrose» dantesche, per quanto riguarda le liriche amorose (così Piero Cudini in Poesia italiana del Trecento, Milano, Garzanti, 1978, p. 52).
La seconda canzone, invece, presenta certamente forti affinità tematiche con i canti della Commedia che sferzano la corruzione della Chiesa di Bonifacio VIII e Clemente V; tuttavia se, come ipotizza Corsi, fu forse scritta da Giannozzo Sacchetti al ritorno di santa Caterina da Siena da Avignone, nel 1376, dopo il fallimento della missione che il Comune di Firenze le aveva affidato, si comprenderanno le ragioni delle vigorose richieste di intercessione a Dio e agli Apostoli per la conversione della Chiesa corrotta, nel formulare le quali probabilmente la stessa santa senese era debitrice a Dante. Anche in questo caso, tuttavia, mi pare che moduli espressivi come «O alta Trinità, luce chiarita», oppure «di Cristo crocifisso, vivo e vero» rimandino più alle laude spirituali del Trecento che ai passi più religiosamente connotati del poema dantesco.
A questo proposito, ritengo che considerazioni simili possano valere per altre liriche devote o morali talvolta attribuite a Dante e pubblicate nella silloge che stiamo considerando. Prendiamo ad esempio i numerosi testi mariani, iniziando dal ternario Ave, tempio di Dio sacrato e santo, densa “farcitura”, teologicamente inappuntabile, dell’Ave Maria. Ora, è ben vero che un esempio di tale genere letterario, di questa sorta di parafrasi amplificata, applicato al Padre Nostro, non manca nella stessa Commedia, all’inizio dell’undicesimo canto del Purgatorio, ma è anche vero che esso era largamente praticato nel Trecento: si pensi al ternario di Antonio da Ferrara Ave, dïana stella che conduci (sempre a partire dal testo dell’Ave Maria) o alle numerose laude del Bianco da Siena che amplificano salmi e preghiere liturgiche.
Sempre mariana è la canzone Folli pensieri e vanità di core, che non avrebbe equivalenti fra le rime dantesche della vulgata, richiamando piuttosto la preghiera di san Bernardo alla Vergine all’inizio del trentatreesimo canto del Paradiso: i titoli che la tradizione innologica medievale aveva attribuito a Maria vi vengono disposti in vari punti in forma anaforica, come accade ancora spesso nel Bianco e anche in un testo a mio avviso di alta qualità stilistica, ovvero El planto de la Verzene Maria di Enselmino da Montebelluna. Anche alcune movenze parenetiche sono tipiche della lauda, mentre l’affidamento spirituale dell’io lirico alla Vergine («ed io con ogni speme / vi chiero grazia, e mi vi raccomando») ricorda la grande canzone che chiude e compie il Canzoniere di Petrarca.
Se il sonetto Salve, santa verace Ostia sacrata sembra tradurre alcuni concetti di preghiere eucaristiche latine, ad esempio l’anonima Ave verum e la Lauda, Sion, Salvatorem di Tommaso d’Aquino, il sonetto O madre di virtute, Luce eterna, che un’edizione del 1830 ritiene una sorta di “professione di fede” di Dante per discolparsi dalle accuse di eresia, pur discostandosi per la forma metrica (ma non per i temi) dalla lauda, è tuttavia avvicinabile a un testo come Salve, Regina di misericordia di Giovanni Quirini, anch’esso invocazione alla Madonna in forma di sonetto.
Il testo più impressionante, fra quelli di argomento religioso, mi pare Ave Regina, madre del tuo Padre, metricamente ibrido e caratterizzato da rime fortemente imperfette: e lo ritengo impressionante perché molti versi potrebbero essere scambiati per una prima redazione della già citata preghiera paradisiaca alla Vergine, tanto ne ricalcano ad verbum i concetti. In tal caso verrebbe, però, da chiedersi il motivo di quell’imperizia nella costruzione delle rime che suggerisce piuttosto una riscrittura delle prime terzine di Par. XXXIII da parte di un ammiratore di Dante non tecnicamente scaltrito come il suo modello.
Troppo indulgenti al macabro, in relazione alle altre opere sicuramente dantesche, mi paiono la canzone Io son ben quella, poi che mi richieri e il sonetto O tu che guardi esta misera tomba, che fu attribuito anche a Petrarca: tali testi ricordano piuttosto le crude immagini della lauda iacoponica Quando t’alegri, omo d’altura o della canzone di Giannozzo Sacchetti Chi non è meco a rinovare il pianto; il sonetto Io maladico il dì ch’io vidi in prima, quasi un rovesciamento di quello petrarchesco “delle benedizioni” (RVF LXI), è una sorta di “disperata” in miniatura (si ricordi che anche la canzone Le stelle universali e i ciel rotanti di Antonio da Ferrara è costruita sull’anafora di «maladetto» – in entrambi i generi e i numeri! – e «maladico»), mentre la canzone Guai a chi nel tormento pare avere l’andamento aforistico e moraleggiante della frottola (si pensi alla pseudopetrarchesca I’ho tanto taciuto o a O tu che leggi di Fazio degli Uberti, che risale al 1336 ed è uno dei primi esempi del genere), senza dimenticare però il moralismo secco e risentito di una canzone ritenuta concordemente dantesca, come Poscia ch’amor del tutto m’ha lasciato.
Per concludere questa sintetica lettura dei testi editi da Veronesi, vorrei riservare alcune ultime osservazioni a quelli politici e amorosi.
Alla grande canzone Virtù che ’l ciel movesti a sì bel punto ha dedicato recentemente parecchie pagine Andrea Manzi, nella sua edizione critica delle Rime spurie da Dante, consultabile online. Egli giunge alla conclusione che il testo sia stato effettivamente composto in lode dell’imperatore Arrigo VII, nel secondo decennio del Trecento e comunque prima del 1335, da un anonimo autore toscano (e non settentrionale, come ritiene De Robertis), il quale si dimostra effettivamente «debitore sia del Dante morale che del Cavalcanti della canzone dottrinale» (ovvero Donna me prega): gli studiosi che già fra Trecento e Cinquecento, da Nicolò de’ Rossi a Giovan Giorgio Trissino, lo attribuirono a Dante, vi furono certo indotti dalla «massiccia presenza di dantismi» che lo caratterizza, oltre che da un impianto concettuale dotto ed elaborato, che illustra, attribuendole all’imperatore, undici virtù, secondo la partizione dell’Etica Nicomachea di Aristotele. Né tale esaltazione di Arrigo dovrebbe destare meraviglia, aggiungo io, anche se il testo fosse realmente dantesco, in chi consideri i termini altisonanti e davvero messianici con cui il poeta lo celebra nelle epistole V, VI e VII.
La canzone L’alta virtù, che si ritrasse al cielo è una profonda riflessione occasionata dalla morte dello stesso Arrigo VII: come in una sorta di danza macabra, o di ubi sunt?, le frecce della Morte colpiscono chiunque, ma non possono scalfire «il pregio che dà virtù […], / perch’è cosa eternale». Il testo, come già ricordato, fu attribuito da Carducci a Cino da Pistoia, già autore di un altro planctus per l’imperatore, la canzone Da poi che la Natura ha fine posto. La dedica a Guido Novello da Polenta, nel congedo, potrebbe realmente far pensare a un’opera di Dante, che fu ospite del nobiluomo nell’estremo soggiorno ravennate: tuttavia, anche Cino intrattenne uno scambio epistolare con quest’ultimo.
Nella canzone Alcides veggio, dietro la figura di Ercole, assimilato nel sincretismo cristiano-pagano al Redentore, si cela probabilmente Carlo Martello d’Angiò, un altro dei suoi contemporanei che Dante caricò di grandi aspettative, esaltandolo nell’ottavo canto del Paradiso: a commento del testo, ricco di riferimenti biblici, Veronesi cita un passo dell’Epistola VIII di Dante, in cui è ancora Arrigo VII a essere assimilato ad Alcide/Ercole, trionfante su Medusa, che rappresenta Firenze.
Le rime amorose, per le quali si sono pure viste in precedenza possibili attribuzioni antagoniste, denotano, come le politiche – e, a mio avviso, ben più delle religiose –, una certa affinità con il linguaggio e l’immaginario danteschi, che sono poi contigui, per certi aspetti, a quelli di Cavalcanti e di altri stilnovisti più o meno “tragici”.
Se il sonetto Ne la mia mente, ove ’l Desio s’informa (che presenta notevoli somiglianze, nelle parole-rima delle quartine, con un passo del terzo canto del Paradiso) è costruito su una teatralizzazione molto cavalcantiana degli attanti, la cobla esparsa Poi che saziar non posso gli occhi miei sembra rivisitare la quinta stanza della grande canzone guinizzelliana Al cor gentil, quella in cui l’angelo si bea contemplando Dio, esattamente come l’amante si rallegra nella visione della donna amata.
Assai suggestiva è anche la sestina Amor mi mena tal fïata all’ombra: si tratta di un discantum, con le stesse parole-rima, alla sestina certamente dantesca Al poco giorno e al gran cerchio d’ombra, che in passato critici autorevoli come Castelvetro e Crescimbeni hanno pure ritenuto opera di Dante, forse per l’innegabile perizia “architettonica” con cui è costruita. Non si potrà non notare, infine, come l’incipit della canzone Questa è la donna che lo mondo alluma ricalchi puntualmente quello di Par. XX: «Quando colui che tutto ’l mondo alluma»: tale implicito parallelismo fra la Domina e il Sole conferma la suggestiva interpretazione di Veronesi, secondo cui in questo testo confluiscono insieme, proprio nell’archetipo della Domina, i diversi valori che essa assume nell’opera dantesca: «sia la creatura fonte ed oggetto di un amore assoluto e sovrumano, sia la personificazione allegorica di istituzioni come la Chiesa o di valori come la Virtù e la Rettitudine». In definitiva, si realizzerebbe anche in un testo del genere quello che Enrico Malato ha scritto a proposito delle rime della maturità di Dante, nelle quali, stante la definizione della filosofia come «amoroso uso di sapienza», è possibile al poeta trattare le grandi questioni di metafisica, morale e diritto «senza realmente allontanarsi dalle formule consuete del linguaggio poetico amoroso» (cfr. Storia della Letteratura Italiana ed. Salerno, vol. 1, Dalle Origini a Dante, 1995, p. 834).
Il commento di Veronesi permette, qui come in altri testi, di illuminare la misteriosa pregnanza di significato e l’allusività polisemica celate dietro parole e immagini, che a volte riattivano episodi biblici dal forte valore simbolico, o concetti della filosofia neoplatonica o dell’averroismo o della mistica medievale, anche sul crinale rischioso fra ortodossia ed eresia.
Nelle ultime pagine del volume il lettore troverà una Piccola appendice stilometrica in cui sono presentati gli esiti suggestivi di un raffronto fra i trentuno testi qui pubblicati, le Rime ritenute certamente dantesche e la Commedia, attuato sulla base dei programmi JGAAP di Patrick Juola e Signature, realizzato da Peter Millican, dell’università di Oxford. Ebbene, considerando la frequenza non solo di alcune parole-chiave, ma anche di elementi più sottili e quasi inconsci come gli «engrammi», ovvero «i minimi nuclei fonosemantici che tramano il discorso poetico», e quindi ad esempio la frequenza delle lettere e la lunghezza delle parole, tali programmi informatici rilevano profonde affinità fra i trentuno misteriosi testi e l’opera poetica dantesca. Si tratta, certo, di metodi d’indagine assai nuovi, ai confini con la fisica e le neuroscienze: tanto nuovi che potrebbero lasciare perplesso un critico abituato a metodi d’indagine più tradizionali, che rilevino ad esempio la presenza di interi sintagmi o versi che si ripetono e riflettono da testo a testo. E verrebbe da chiedersi quali sarebbero i risultati di una tale indagine se si raffrontassero, ad esempio, le liriche del Canzoniere di Petrarca con quelle di alcuni petrarchisti quattro-cinquecenteschi, i più ortodossi e fedeli al modello.
D’altro canto, però, è certamente un bene che la ricerca in campo letterario non si precluda a priori alcuna delle vie che la tecnologia ci mette oggi a disposizione; e, anche se difficilmente – a mio avviso – una macchina che opera su dati statistici potrà dissipare la nebbia che si addensa attorno all’autenticità di un testo, sarà in grado, tuttavia, di stimolare domande e riflessioni, ad esempio sull’esistenza di una “fortuna di Dante” che si è manifestata nei secoli passati in tentativi di imitarne lo stile, la maniera, le strutture concettuali e persino l’anima, sebbene quest’ultima, con la potenza che porta in sé, resti un mistero inattingibile, prerogativa unica del suo genio.
Penso di non essere troppo lontano dal vero nell’affermare che il fine primario che si è posto il solerte curatore di questa silloge di poesia antica sia stato non tanto o non solo quello di riaprire un dibattito pro o contro l’autenticità di quei testi, ma certamente quello di reintrodurli in un circuito d’interesse, di rimuovere quella sorta di damnatio memoriae che, da un secolo a questa parte, pareva averli condannati all’oblio. Nella consapevolezza che essi, indipendentemente dalla loro caratura stilistica più o meno alta, siano comunque capitoli di una storia che vale la pena di essere raccontata, in grado di riservare sorprese e di svelare piccole perle nascoste, come certo potrebbero fare ancora tantissimi altri testi dimenticati nelle nostre biblioteche, quasi condannati dallo stigma dei “minori” e degli “apocrifi”.
(Fonte: diacritica.it)