Dovremmo guardare spesso il cielo.
Dovremmo guardare il cielo quando vanno o tornano le rondini; quando i fulmini lo rendono inquieto, o quando la sera genera per noi quieta la luna.
Talvolta sono gli aquiloni che ci invitano a guardare il cielo, ed è una festa per tutti noi.
Un tempo pensavo potessero bastare anche tre minuti al giorno di uranoterapia per salvarci; adesso penso che tre minuti di attenzione per il cielo siano pochi: non tanto perché in quei tre minuti il cielo non riesca a generare serenità in noi, quanto perché se riserviamo solo tre minuti al cielo,ci resta sempre troppo tempo per farci contaminare dai nostri meschini “valori” di quartiere.
Dovremmo perciò guardare il cielo più a lungo; stare dentro i suoi tramonti e le sue aurore. E guardando verso l’alto il nostro sguardo potrà incrociare le uniche “cose” celesti della terra: gli alberi, le montagne, gli uccelli.
E dovremmo guardarlo perché noi possiamo realizzarci solo lì. Perché è da lì, come diceva Platone, che noi veniamo, e solo lì potremo essere veramente a casa.
Noi siamo animali strani: gli unici bipedi senza le ali; eppure i Greci sapevano che un tempo le nostre braccia sono state ali; e volare è nella nostra memoria e nel nostro destino.
Dobbiamo guardare il cielo, altrimenti rischiamo di guardare la dichiarazione dei redditi e non la purezza del sentimento, quando un uomo e una donna si regalano la vita.
Dobbiamo guardare il cielo, perché più conosciamo il grande, il nobile e l’eccelso, più diamo pane sacro ai nostri cuori.
E se talvolta il cielo ci sembra troppo per noi, meglio ancora. Così potremo toccare con mano il dovere ( ma anche la bellezza ) dell’umiltà.
Naufragare nell’assoluto celeste era il bisogno struggente del gobbo di Recanati, e la sua poesia ancora ci commuove.
Naufragare era il desiderio del folle di Zaratustra; e il suo “naufragium feci, bene navigavi” è la prova di quanto fosse al di là della nostra piccina idea del bene e del male.
Naufragare era anche la gioia decreativa dell’anoressica Simone, quando ricordava che l’amore è rinuncia a sé, non celebrazione di una identità gonfia di arroganza e di violenza.
Dobbiamo guardare il cielo perché potremmo incrociare lassù la tenerezza amorosa di tutti i don chisciotte della terra; di tutti quelli che hanno avuto la fortuna di capire che la nostra intelligenza emotiva mai deve piegarsi al “realismo” della materia.
Dobbiamo guardare il cielo perché da lì viene la primavera e la neve. Da lì viene la luce e la notte; da lì viene il divino.
Da lì arriva qualcosa che noi chiamiamo amore e che, anche quando non lo sappiamo, è la nostra unica possibilità di salvezza.
Dobbiamo guardare il cielo, di giorno o di notte, non cambia: capiremmo allora quanto è grande l’universo, e quanto meschino l’animale che si crede il suo padrone.

 Tino Di Cicco

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